Vangelo della Solennità di Tutti i Santi.
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 5, 1-12a)
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
C’è un rischio contemplando le Beatitudini. Potremmo provare la stessa emozione che ci coglie quando guardiamo un paesaggio di alta montagna: una bellezza abbagliante che ci lascia senza parole. Le vette inaccessibili, il silenzio regale dei ghiacci, la dolcezza del cielo profondo esaltata dalle linee dei versanti. Ma quando anche solo ci si avvicini alle falde della montagna – già prima ancora di iniziare a salire davvero – quella visione subito scompare e ci misuriamo con la fatica, la lentezza e i fastidi del cammino. Vista da vicino quella ascesa è brutta, respingente: lo stento di salire roccia dopo roccia; il sentiero fangoso, sporco, sdrucciolevole; i piccoli ma limitanti infortuni; i progressi lentissimi, quasi inavvertiti, in una desolazione senza riparo.
Allo stesso modo è facile fermarsi a contemplare un “Vangelo da cartolina”. Ma quando ci misuriamo con le irragionevoli prese di posizione del fratello, i modi di fare a noi estranei, le palesi ingiustizie, l’ansia di perdere qualcosa, le solite incursioni della paura, la noia, la lentezza della carne che fa fatica a tenere dietro al cuore, il tempo che manca, le richieste contrastanti di chi si contende la nostra attenzione, le cose che ogni volta inspiegabilmente ci irritano nel profondo, i piccoli piaceri che tengono in scacco i grandi ideali, la mente distratta, il riposo senza ristoro, il fiato corto dei proponimenti, la delusione sorella gemella dell’ambizione, e così via – quando ci misuriamo con tutto questo ed altro ancora, la via del Vangelo anche qui si mostra ostica, poco attraente, scoraggiante. La monotonia del nostro limite.
Eppure nell’andatura faticosa del discepolo c’è una parola di Gesù che qui lascia lampeggiare qualcosa di profondo e scalda il cuore: è la parola “esultate”. E’ una parola infatti con cui non si può barare. Non si esulta per forza o per finta. Esulta chi è animato da una forza gioiosa che in qualche modo lo supera e lo fa quasi staccare da terra. L’esultanza non è un sorriso rassegnato, né semplicemente una convinzione ragionevole e rassicurante. L’esultanza coinvolge tutta la persona. L’esultanza è propria della vittoria, dello scampato pericolo o dell’incontro d’amore. Cristo esulta (cfr. Lc 10, 21) e dice “esultate!”.
Questa gioia nasce perché già si conosce di chi sarà l’ultima parola: sarà dell’amore di Dio. L’ultima parola dinanzi alla povertà dell’uomo, ed anche dinanzi al suo peccato. Per questo l’esultanza è propria del povero, sopraffatto da una promessa d’amore: “il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1, 47). L’esultanza è propria del povero che ha creduto alle sue promesse: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1, 45). Lo spirito delle Beatitudini è lo stesso spirito del Magnificat.